L’Eterno nel Tempo
Arte e Architettura Cristiane tra Oriente e Occidente
“Ogni scriba divenuto discepolo
del regno dei cieli,
è simile a un padrone di casa
che estrae dal suo tesoro
cose nuove e cose antiche
(Mt 13, 52)”
Il ciclo di convegni che inauguriamo, dedicato al tema vasto e articolato dell’arte e dell’architettura per la liturgia, nasce da una riflessione maturata nel tempo per il tramite di piacevoli conversazioni tra amici uniti dalla fede e da un profondo amore per la Bellezza. Dal confronto aperto e ripetuto, inframmezzato da feconde pause in cui lasciar decantare i pensieri, è affiorato il comune convincimento che la pagina complessa e tormentata di storia che stiamo attraversando costituisca a suo modo un tempo di grazia, un’opportunità di conversione, e che la Bellezza, oggi più che mai, assuma un ruolo fondamentale nel processo di trasmissione della fede.
Il Comitato Scientifico racconta
In un contesto sociale contraddistinto da pluralità culturale, accentuato soggettivismo, esplicita o sottesa ribellione nei confronti di ogni vero o supposto ordine precostituito, le argomentazioni su ciò che è ‘vero’ e ‘buono’ lasciano indifferenti o suscitano spontanea irritazione, mentre l’incontro con l’autentica Bellezza scuote e risveglia anche il cuore più indurito e la mente più chiusa. La crisi di senso che all’apparenza svuota i nostri luoghi di culto (a dire il vero con non poche e promettenti eccezioni su cui converrebbe riflettere), non cancella quell’attesa di Dio che riposa nel cuore di ogni uomo, e tale circostanza fa sì che ogni buon cristiano debba sentirsi interpellato, singolarmente chiamato a diffondere la gioia contagiosa dell’incontro con Cristo, sperimentando modalità nuove ed efficaci con cui mostrarne la Bellezza e l’Amore. Se abbiamo fortemente voluto giungere sino ad oggi e sino a qui, è dunque innanzitutto nell’ottica del servizio obbediente alla Chiesa, nel tentativo di leggere i segni dei tempi, interpretarne le istanze, e inaugurare un possibile e proficuo itinerario di ricerca: “Fa’ che la nostra luce splenda davanti agli uomini, perchè vedano le nostre opere buone e glorifichino il Padre che è nei cieli“, recitano le invocazioni del martedì nella seconda settimana del Salterio.
Nel vivace dibattito sull’arte e l’architettura per il culto cattolico (un dibattito rispetto al quale, possiamo affermarlo con certezza, l’Italia svolge ormai da anni un ruolo trainante), ciò che maggiormente cattura l’attenzione è il perdurare di tensioni e contrasti all’apparenza inconciliabili: da un lato i detrattori dell’ultima riforma conciliare, dall’altra i suoi sostenitori; da un lato chi propaganda uno sperimentalismo liturgico senza limiti nè condizioni, dall’altro i fervidi seguaci di una discutibile idea di Tradizione; da un lato chi spalanca le porte all’arte contemporanea qualunque siano i suoi linguaggi e contenuti, dall’altro chi si ostina nella reiterazione di modelli formali ormai distanti dalla nostra sensibilità e dunque sterili, incapaci di comunicare con l’immutata veemenza che ancora emana da innumerevoli capolavori del passato; da un lato chi si spende per l’agognata unità del popolo cristiano distribuito sino ai quattro angoli della terra, dall’altro chi si irrigidisce nella sottolineatura di ciò che divide a discapito di ciò che avvicina. Il medesimo scenario sembra spesso caratterizzare non solo il generale approccio alla fede, che raduna da un lato nichilisti e agnostici e dall’altro convinti fondamentalisti, ma anche lo stesso panorama dell’arte e dell’architettura religiosa contemporanea (non dissimile, del resto, da quello della produzione architettonica tout court), che propone edifici spettacolari o al contrario privi di ogni distintivo elemento identitario: una sorta di incontrollato oscillare tra opposti estremi che mai raggiunge il giusto punto di equilibrio, e che forse nasconde un fondo di incertezza, l’inconfessato timore di non saper più riconoscere la Verità dai suoi frutti, e di non essere in grado incarnarla nel vivo presente.
A ben guardare, messe da parte alcune oggettive e irriducibili differenze di vedute, il perdurare dei contrasti sembra alimentato da pochi ma fatali equivoci, tra i quali la facile confusione tra storicismo e Tradizione, tra gusto e Bellezza, tra gratuità e novità, o tra allegoria e simbolo. Ciò che spesso accentua attriti e divisioni è invece una sorta di progressivo disimpegno dall’ascolto e dalla dialettica, la diffusa tendenza a ritenersi già padroni di una verità che null’altro ha da domandarsi e da scoprire, e che mal sopporta il pensiero altrui laddove legittimamente distinto e distante: una condotta che talvolta sconfina nel giudizio affrettato, nel commento inopportuno, e inevitabilmente complica i rapporti, smorza la curiosità e finisce con l’inibire ogni autentico slancio inventivo. Accade persino che la liturgia, luogo in cui riconoscersi fratelli e figli dello stesso Padre, divenga paradossalmente terreno di aspre contese, nonostante la storia che abbiamo alle spalle debba la sua ricchezza, pur nella piena fedeltà a Cristo, proprio alla felice convivenza di espressioni e sensibilità molteplici e variegate.
Lasciato alle spalle il traguardo dei cinquant’anni dall’ultima riforma, e superata la facile scorciatoia delle generalizzazioni, si propone dunque di entrare nello specifico della materia liturgica e delle espressioni artistiche e architettoniche ad essa connesse, interrogandosi sui risultati conseguiti come pure sui possibili azzardi, le smagliature, le incertezze e i ritardi che hanno caratterizzato la ricezione della preziosa eredità conciliare. Se infatti non vi è dubbio che alcuni di quegli orientamenti debbano ancora essere pienamente assimilati, è assai probabile che altri debbano invece essere già riesaminati alla luce dei mutamenti sociali e culturali di recente intercorsi. Per tratteggiare il perimetro della questione può risultare sufficiente, concentrato ad esempio lo sguardo sull’esperienza architettonica, far cenno a pochi temi sensibili: l’abbandono forse precipitoso della geometria cruciforme nella progettazione dei luoghi di culto; gli innumerevoli adeguamenti liturgici affrettati, parziali e inutilmente distruttivi; la repentina virata verso un aniconismo talvolta estremo e non privo di conseguenze, cui fa da contrappunto un’incondizionata apertura all’arte contemporanea persino laddove strutturalmente distante dal pensiero della Chiesa e maldisposta a veicolarne il messaggio di Amore e di salvezza; il progressivo e positivo affermarsi di un lessico minimalista convincente ma talvolta figlio di un’oggettiva carenza di pensiero più che di una meditata riconduzione del complesso all’essenziale; la semplicistica interpretazione del principio della actuosa participatio, troppo spesso ridotta a mera questione di prossimità tra fedeli e altare e unità dello spazio liturgico; la frequente omologazione dell’edificio di culto all’architettura civile, con conseguente abbandono di ogni segno distintivo, di ogni afflato espressivo e di ogni aspirazione a quell’aura monumentale che nulla ha a che fare con la soverchiante magniloquenza; il dilagare di un funzionalismo pauperista inteso quale esito inevitabile della sacrosanta esortazione a una maggiore sobrietà; o ancora la graduale rinuncia a quelle articolazioni spaziali in forma di cappelle, ambulacri, colonnati e narteci che forse proprio oggi, nel contesto di una società multiculturale e secolarizzata, tornerebbero utili per accogliere chi, pur lontano dalla Chiesa, è in cerca di Dio e di luoghi raccolti in cui potersi trattenere senza essere forzosamente coinvolto entro dinamiche comunitarie espressamente confessionali.
Volendo estrapolare una prima sommaria conclusione, potremmo osservare che abbiamo scelto, complici un nutrito insieme di concause, la soluzione più agevole: “è assai più semplice distruggere che conservare l’essenziale eliminandone le scorie” (M.M. Davy). Ed è proprio da tale assunto, forse, che occorre ripartire. La lucida consapevolezza dei progressi maturati negli ultimi decenni di cammino, come all’opposto la piena coscienza dei ripetuti passi falsi, non vanno intesi quale sguardo ammiccante rivolto ai sostenitori dell’una o dell’altra corrente di pensiero, ma più semplicemente come volontà di far tesoro degli errori non meno che delle consolidate acquisizioni, così da trarne concreti insegnamenti con cui procedere spediti verso la meta. Se infatti alla saggia lungimiranza dei padri conciliari dobbiamo piena gratitudine per aver intuito il futuro della Chiesa e aver restituito centralità e splendore all’ars celebrandi, non vi è dubbio che spetti unicamente a noi mostrarci all’altezza di una rinnovata comprensione di un così vasto programma e di una così ricca eredità. A tal fine, tra le condotte da abbandonare vi sono proprio la propensione a irrigidirsi entro schemi preconfezionati, il facile scivolamento verso un’abitudine che non interroga più, la tentazione di mettere al bando pagine di storia, idee, concetti o persino parole, per ritagliare piuttosto un sereno spazio di riflessione, riacquisire una reciproca capacità di ascolto e magari scoprire, perchè no, che tra antico e nuovo non sussiste in fondo la benché minima contraddizione; che l’arte contemporanea può risultare autentica liberamente qualificandosi come astratta o figurativa, sebbene quest’ultima rappresenti talvolta una necessità; che la liturgia può incarnarsi in molteplici e diverse forme e sensibilità, ciascuna con pieno diritto di cittadinanza in seno alla Chiesa; che anche l’homo technologicus ha bisogno di meraviglia, stupore, e di simboli e Bellezza quali veicoli specifici del sacro; che tra aula e navata è di gran lunga più seducente, per manifesta sovrabbondanza di echi e risonanze, il secondo termine; che l’opera d’arte incompresa può trovare talvolta giustificazione in un oggettivo difetto di comunicazione, piuttosto che nella supposta mancanza di cultura del suo dubbioso fruitore; e che le chiese d’Occidente e d’Oriente, come perentoriamente asseriva San Giovanni Paolo II, hanno talmente tanto in comune da non poter prescindere l’una dall’altra.
Evolvendosi all’insegna dell’identità e della variazione, e custodendo inalterato il deposito della fede pur attraverso forme ed espressioni sempre nuove e diverse, liturgia e arte cristiana hanno generato capolavori diffusi di inaudita bellezza, sino a costituire un patrimonio che se da un lato dà conferma della grandezza della Chiesa di Cristo, dall’altro fornisce una profusione di spunti da cui trarre nuova ispirazione. Ciascuna delle esperienze maturate rappresenta il tentativo di incarnare il Vangelo in un tempo e un luogo specifici, e la stessa sovrabbondanza di quanto accumulato nel corso dei secoli è garanzia delle innumerevoli possibilità che ancora ci attendono, e dell’intrinseca debolezza di ogni teoria tesa a mortificare tanta fecondità selezionando soluzioni esemplari da applicare sempre e comunque.
Il cammino che intendiamo compiere, aperto a tutti coloro che desidereranno unirsi a noi, persegue l’unico obiettivo di una progressiva messa a fuoco delle molteplici sfaccettature della Bellezza cristiana, nella certezza che Dio stesso chiami tutti e ciascuno a corrisponderGli e ad essere testimoni di quell’Amore che fa belle cose e persone: un Amore alla luce del quale le nostre chiassose diatribe, le ostinate opposizioni, le differenze spesso tradotte in contrasti che separano e feriscono l’unità della Chiesa, appaiono in tutta la loro piccolezza e povertà.
Il tempo in cui le certezze sembrano vacillare è tempo giusto, e in potenza fecondo, per tornare a mettere a fuoco l’essenziale, e dunque rieducarsi a riconoscere, nel fervido fluire di quel che legittimamente muta e si trasforma, la nobile semplicità di ciò che permane attraverso i secoli, e che è sostanza della liturgia come dell’arte. Per questo ci è subito apparsa convincente, come icona dei nostri incontri che ci auguriamo possano godere di lunga vita, quella antichissima dell’arca, a significare proprio la comune volontà di fermarsi a riflettere sui fondamenti della fede, per riappropriarcene e portarli in salvo: “Colligite quae superaverunt fragmenta, ne quid pereant”, ricorda il Vangelo di Giovanni (Gv 6, 12). L’arca è infatti la Chiesa e la Chiesa siamo noi, uomini in carne ed ossa i cui pensieri e le cui azioni rendono viva la Tradizione: non una polverosa eredità da custodire intatta come fosse manufatto da museo, ma una memoria che è già futuro, il sangue stesso che scorre nelle nostre vene, e che trattiene l’impronta delle generazioni che ci hanno preceduto e di quelle che verranno.
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